“Non erano nell’Attica ancora da molti giorni quando la peste cominciò a manifestarsi per la prima volta tra gli Ateniesi”: con questo passaggio comincia la lunga e dettagliata descrizione su una calamità ben peggiore dei Lacedemoni, che ormai dilagavano nell’Attica. Dopo l’inno ad Atene e al modo di vivere degli Ateniesi, celebrato nel Discorso di Pericle, si apre il baratro causato da una malattia sconosciuta, di fronte alla quale i medici risultano impotenti, inutili le preghiere agli dei. Il nemico invisibile è inarrestabile e colpisce “senza nessuna causa apparente”; lo stesso Tucidide afferma di essere stato colpito dal morbo e di esserne guarito, e dice di volerne parlare in dettaglio proprio perché, in caso si dovesse ripresentare, i cittadini possano essere maggiormente preparati. Dal quadro accurato tratteggiato dallo storiografo, che ripercorre l’evoluzione della malattia dai primi sintomi fino alla stadio più avanzato, gli studiosi sono riusciti a riconoscere la malattia (non si trattava di peste bubbonica, ma forse vaiolo o tifo). Ma ben più terribile della malattia risulta l’effetto dirompente e sconvolgente dell’epidemia sui rapporti sociali: una paura angosciante dilaga tra i cittadini, dettata dall’impossibilità di essere curati, ma anche dalla velocità del contagio. A questo segue il senso di isolamento e abbandono che alcuni cittadini sperimentano, il disordine e il caos in cui piomba la città, e infine il rovesciamento delle usanze tanto celebrate poche pagine prima: per quale motivo i condannati a morte, infatti, dovrebbero curarsi delle leggi e limitare il proprio istinto dal momento che nessuno era più al sicuro, non vi era nessuna certezza del futuro? Un’analisi attenta, quella di Tucidide, che, oltre a qualificarlo come un osservatore profondo degli eventi a lui contemporanei, ha suscitato analoghe riflessioni sul tema, che mai come oggi risulta quanto mai attuale.
IMMAGINE: Peste di Azoth, di Nicolas Poussin, 1630-1631.