Nel 1836, Giovanni Battista Sartori, fratello ed erede di Antonio Canova, al quale rimase vicino e fedele tutta la vita, volle trasportare a Possagno, in un unico ambiente decoroso, che ricreasse il clima del laboratorio dell’arte, tutte le Sculture che stavano nello Studio dell’artista a Roma.
Nacque così la Gipsoteca, la più grande raccolta al mondo di gessi e di terrecotte, la quale ci consente di capire come operava Antonio Canova, nella ingegnosa trasformazione della materia, dal bozzetto, al gesso, al marmo.
Per costruire il Museo furono chiamati architetti de grande prestigio: del primo intervento venne incaricato il veneziano Francesco Lazzari, mentre nel 1957 progettò l’ampliamento l’architetto Carlo Scarpa che seppe far dialogare le forme basilicali ottocentesche, ideate da Lazzari, con la sua geniale soluzione degli spazi luminosi.
Oltre alla Gipsoteca, nell’adiacente casa del Canova, si possono ammirare alcuni raffinatissimi marmi, una grande collezione di dipinti ad olio ed a tempera, straordinari disegni, centinaia di incisioni, le principali onorificenze ed alcuni oggetti della vita dell’artista.
Nel 1955, in occasione del prossimo bicentenario della nascita di Antonio Canova, la Soprintendenza ai Monumenti per il Veneto, su incarico dello Stato che si assumeva l’onere della spesa, di concerto con il Soprintendente alle Gallerie. Vittorio Moschini decise di costruire un nuovo padiglione della Gipsoteca di Possagno e di affidare lì incarico della progettazione e di sistemazione a Carlo Scarpa, docente dell’Istituto Universitari di Architettura di Venezia.
Obiettivo del progetto scarpiano non doveva essere solo quello di trovare degna collocazione del Teseo, ma anche quello di mettere in risalto il valore di alcuni gessi originali, dei calchi, alcuni marmi e bozzetti in terracotta e, soprattutto, dei bozzetti canoviani, in parte accatastati nel vecchio salone.
Adiacente all’edificio a pianta basilicale della Gipsoteca, l’area di progetto è una lunga striscia, limitata da un lato dal muro ovest della Gipsoteca e dall’altro da una strada vicinale adiacente a valle.
Alla monumentalità e all’unità del vecchio edificio, Scarpa contrappone un complesso piccolo ed articolato, che dai vincoli iniziali trae carattere distintivo, definendo uno spazio frammentario e molteplice, secondo una specifica concezione museografica.
Due ambienti collegati articolano la nuova costruzione: uno cubico, illuminato zenitalmente da quattro finestre angolari a forma di prisma, l’altro gradonato, discendente e progressivamente restringentesi, secondo la pendenza e la forma del lotto. Un corridoio aperto, pavimentato con ciottoli bianchi e neri, separa quest’ultimo ambiente dell’edificio neoclassico, sboccando in un piccolo giardino situato al fondo del terreno.
La luce ed il colore bianco, che la ribadisce e diffonde, sono caratteri salienti di un intervento allestitivo che, mentre aderisce alla peculiare sensibilità di Scarpa (“Io amo molto la luce naturale”), corrisponde anche alle esigenze di ammirazione del gesso, materiale prevalente fra gli oggetti esposti. Le finestre si innalzano – per non dare illuminazione battente, ma diffusa – e divengono prismi, aggettanti o introflessi. Dietro le bianche forme delle statue si stendono – a richiamare ed esaltare la qualità luminosa – non per contrapposizione ma per contrappunto – pareti candide e levigate, appena sottratte alla totale fusione degli spazi dalla fascia in piattina di ferro che le stacca dai pavimenti in marmo di Aurisina.
Al fondo della galleria, nel luogo di massima illuminazione, il gruppo delle Grazie chiude coerentemente il percorso.
Fonti: Giancarlo Cunial;
Francesco Dal Co;
Giuseppe Mazzariol.