San Martino

Martino nacque a Sabaria Sicca (odierna Szombathely, in Ungheria) in un avamposto dell’Impero Romano alle frontiere con la Pannonia. Il padre, Tribuno Militare della Legione, gli diede il nome di Martino in onore di Marte, il dio della guerra.  Ancora bambino si trasferì coi genitori a Pavia, dove suo padre aveva ricevuto un podere in quanto ormai veterano, e in quella città trascorse l’infanzia. A dieci anni fuggì di casa per due giorni che trascorse in una chiesa (probabilmente a Pavia).
Nel 331 un editto imperiale obbligò tutti i figli di veterani ad arruolarsi nell’Esercito Romano. Fu reclutato nelle Scholae imperiali, corpo scelto di 5 000 unità perfettamente equipaggiate: disponeva quindi di un cavallo e di uno schiavo. Fu inviato in Gallia, presso la città di Amiens, nei pressi del confine, e lì passò la maggior parte della sua vita da soldato. Faceva parte, all’interno della Guardia Imperiale, di truppe non combattenti che garantivano l’Ordine Pubblico, la protezione della posta imperiale, il trasferimento dei prigionieri o la sicurezza di personaggi importanti. In qualità di circitor, il suo compito era la ronda di notte e l’ispezione dei posti di guardia, nonché la sorveglianza notturna delle guarnigioni.

Durante una di queste ronde avvenne l’episodio che gli cambiò la vita (e che ancora oggi è quello più ricordato e più usato dall’iconografia). Nel rigido inverno del 335 Martino incontrò un mendicante seminudo. Vedendolo sofferente,
tagliò in due il suo mantello militare (la clamide bianca della guardia imperiale) e lo condivise con il mendicante.
La notte seguente vide in sogno Gesù rivestito della metà del suo mantello militare. Udì Gesù dire ai suoi angeli: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito». Quando Martino si risvegliò il suo
mantello era integro. Il mantello miracoloso venne conservato come reliquia ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi. Il termine latino medievale per “mantello corto” , cappella, venne esteso alle persone incaricate di conservare il mantello di san Martino, i cappellani, e da questi venne applicato all’oratorio reale, che non era una chiesa, chiamato cappella.
Il sogno ebbe un tale impatto su Martino, che egli, già catecumeno, venne battezzato la Pasqua seguente e divenne cristiano. Martino rimase ufficiale dell’esercito per una ventina d’anni raggiungendo il grado di ufficiale nelle alae scholares (un corpo scelto). Giunto all’età di circa quarant’anni, decise di lasciare l’esercito, secondo Sulpicio Severo dopo un acceso confronto con Giuliano, il Cesare delle Gallie in seguito noto come Apostata. 

Lì Iniziò la seconda parte della sua vita.
Martino si impegnò nella lotta contro l’eresia ariana, condannata al I concilio di Nicea (325), e venne per questo anche frustato (nella nativa Pannonia) e cacciato, prima dalla Francia, poi da Milano, dove erano stati eletti vescovi
ariani. Nel 357 si recò quindi sull’Isola Gallinara ad Albenga, dove condusse quattro anni di vita in eremitaggio parziale, poiché non del tutto solo, visto che le cronache segnalano che sarebbe stato in compagnia di un prete, uomo di grandi virtù, e per un periodo con Ilario di Poitiers; su quest’isola, dove vivevano le galline selvatiche, si cibava di elleboro, una pianta che ignorava fosse velenosa. Una leggenda narra che trovandosi in punto di morte per aver mangiato quest’erba, pregò e venne miracolato. Tornato quindi a Poitiers, al rientro del vescovo cattolico, divenne monaco e venne presto seguito da nuovi compagni, fondando uno dei primi monasteri d’occidente, a Ligugé, sotto laprotezione del vescovo Ilario.

Vescovo di Tours

Nel 371 i cittadini di Tours lo vollero loro vescovo, anche se alcuni chierici avanzarono resistenze per il suo aspetto trasandato e le origini plebee. Come vescovo, Martino continuò ad abitare nella sua semplice casa di monaco e proseguì la sua missione di propagatore della fede, creando nel territorio nuove piccole comunità di monaci. Avviò un’energica lotta contro l’eresia ariana e il paganesimo rurale, interrompendo anche cortei funebri per il sospetto di paganesimo. Inoltre predicò, battezzò villaggi, abbatté templi, alberi sacri e idoli pagani, dimostrando comunque compassione e misericordia verso chiunque. La sua fama ebbe ampia diffusione nella comunità cristiana dove, oltre ad avere fama di taumaturgo, veniva visto come un uomo dotato di carità, giustizia e sobrietà.

Martino aveva della sua missione di “pastore” un concetto assai diverso da molti vescovi del tempo, uomini spesso di abitudini cittadine e quindi poco conoscitori della campagna e dei suoi abitanti. Uomo di preghiera e di azione, Martino percorreva personalmente i distretti abitati dai servi agricoltori, dedicando particolare attenzione all’evangelizzazione delle campagne.
Nel 375 fondò a Tours un monastero, a poca distanza dalle mura, che divenne, per qualche tempo, la sua residenza. Il monastero, chiamato in latino Maius monasterium (monastero grande), divenne in seguito noto come Marmoutier.
Nelle comunità monastiche fondate da Martino non c’era comunque ancora l’attenzione liturgica che si riscontrerà successivamente nell’esperienza benedettina grazie all’apostolato di san Mauro: la vita era piuttosto incentrata nella condivisione, nella preghiera e, soprattutto, nell’impegno di evangelizzazione.
Martino morì l’8 novembre 397 a Candes-Saint-Martin, dove si era recato per mettere pace tra il clero locale. La sua morte, avvenuta in fama di santità anche grazie ai miracoli attribuitigli, segnò l’inizio di un culto nel quale la generosità del cavaliere, la rinunzia ascetica e l’attività missionaria erano associate. Tra i miracoli che gli sono stati attribuiti, ci sono anche tre casi di risurrezione, per cui veniva designato «Trium mortorum suscitator», cioè «Colui che resuscitò tre morti». San Perpetuo, vescovo di Tours dal 461 al 491, commissionò al poeta e retore Paolino di Périgueux una biografia di San Martino di Tours, che fu redatta in versi, distribuiti in sei libri.

Culto

San Martino di Tours viene ricordato l’11 novembre, sebbene questa non sia la data della sua morte, ma quella della sua sepoltura. Questa data è diventata una festa straordinaria in tutto l’Occidente, grazie alla sua popolare fama di
santità e al numero notevole di cristiani che portavano il nome di Martino.
Nel Concilio di Mâcon era stato deciso che sarebbe stata una festa non lavorativa.

“A San Martin el mosto se fa vin”

In tutto il Veneto si festeggiava un tempo il giorno di San Martino (11 novembre), ricorrenza molto popolare e che oggi è quasi ovunque sostituita con la festa di Halloween. I ragazzini giravano per i quartieri e le piazze a far
rumore con la battitura di coperchi, pentole e campanacci per attirare l’attenzione della gente ed avere, allora come ora, un dolcetto o dei soldini.
Il questo periodo molto importante per i contadini, si segna la fine del lavoro nei campi e l’inizio del travaso del vino dai tini, dove è stato messo a fermentare, nelle botti. In Italia il culto del Santo è legato alla cosiddetta estate di San Martino, all’inizio di novembre. La festa, collocata alla fine dell’annata agricola e al principio della stagione invernale, fu l’origine di molte tradizioni legate all’attività agricola ed al mondo rurale. In quei giorni si completa la raccolta dei frutti, il mosto ribolle nei tini ed è prossima la svinatura. I boschi sono ricchi di selvaggina, di funghi, di castagne, di nespole. 
 

E il vino è “novello”

Arriva l’autunno e, come di consueto, la prima prelibatezza di Bacco è il vino novello. 
Fino a pochi anni fa il vino novello non esisteva come tipologia a sé stante di vino; esisteva il vino nuovo, ma non era proprio la stessa cosa. Nonostante il vino nuovo fosse conosciuto fin dall’antichità, il mercato del novello si è sviluppato solo negli ultimi anni: nell’antichità e nel medioevo il consumo era prevalentemente rivolto verso vini destinati all’invecchiamento, che la facevano da padrone nei commerci vinicoli.
 
Il disciplinare legislativo italiano prevede che il vino novello sia posto in vendita a partire dal 6 novembre dello stesso anno della vendemmia, anno che deve essere obbligatoriamente riportato in etichetta.
Il vino novello ha vita breve, non è certo un vino che si mantiene a lungo, ma va preferibilmente bevuto entro la fine dell’anno, è il classico vino che si accompagna alle castagne, altro prodotto autunnale, o che si usa per fare il vin
brulè.
In Italia la produzione del vino novello utilizza qualsiasi tipo di uva (in preferenza rossa); tuttavia si privilegiano l’Aglianico, il Cannonau, il Barbera, il Merlot, il Nero d'Avola, il Corvina, il Refosco, il Cabernet il Sauvignon e il Sangiovese. 
La sua caratteristica principale è il processo di vinificazione, denominato “macerazione carbonica” dell’uva intera. La legge impone infatti di utilizzare almeno il 30% di vino ottenuto con questa tecnica. 
Si tratta di un preciso procedimento che prevede la sistemazione in opportuni contenitori di acciaio di interi grappoli d’uva appena raccolta, l’aggiunta artificiale di anidride carbonica e l’elevazione del tutto ad una temperatura
superiore ai 35°. I grappoli sono lasciati ad autofermentare per un periodo che varia dai 5 ai 20 giorni, durante il quale gli zuccheri si trasformano in alcool, con la produzione di glicerolo. 
Successivamente l’uva viene pigiata e sottoposta a tradizionale fermentazione che dura circa 5-6 giorni. Il vino così ottenuto deve avere almeno 11° alcolici.
Trasformato da mosto a vino, il novello viene quindi travasato e immesso nel mercato.

 

 

Immagine: San Martino a cavallo e il povero, S. Tosi 1945. Ferno.

                      El Greco, San Martino e il mendicante.

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