Simon Wiesenthal, Il cacciatore di nazisti

«Tutto il valore del mio lavoro sta nell’ammonimento agli assassini di domani: non avrete mai pace.»

 

(Simon Wiesenthal, intervista, 1995)

 

«Lei è Simon Wiesenthal, non è vero?»  disse la signora, tirandolo per il bordo della giacca. Lui si voltò, sapendo di essere stato riconosciuto. Gli mise in mano una vecchia foto: «Per favore, mi aiuti a trovare questa donna». La donna cercata era Hermine Braunsteiner-Ryan, aguzzina del campo di sterminio nazista di Ravensbrück che stava vivendo una seconda vita di casalinga negli Stati Uniti: fu uno dei tanti criminali nazisti consegnati alla giustizia grazie all’incessante, certosino lavoro di Wiesenthal, che durò dalla fine della Seconda Guerra mondiale fino a poco prima della sua morte, nel 2005.

Simon Wiesenthal nasce nel 1908 a Butschatsch, allora parte dell’Impero Austro Ungarico. Studia architettura a Praga, città meno ostile agli ebrei rispetto al clima della città natale: tornerà per aprire uno studio di architettura. I russi, occupata la zona a seguito del patto Molotov-Ribbentrop, costrinsero gli ebrei ai lavori forzati, nel triste prosieguo della lunga storia dei pogrom (le persecuzioni che le comunità ebraiche hanno subito sin dal Medioevo in tutta l’Europa orientale).  Nel giugno 1941 Hitler invade l’Unione Sovietica, e la persecuzione degli ebrei diventa sempre più sistematica e crudele, fatta di uccisioni di massa e reclusioni nei ghetti: qui la storia personale di Wiesenthal e della moglie si intreccia con la Storia e inizia una lunga odissea di permanenze in vari campi di sterminio, fino all’arrivo degli Americani a Mauthausen, nel maggio 1945, quando viene finalmente liberato.

«Ciò che mi colpì di più rispetto ai maltrattamenti e alle sofferenze fisiche era l’annientamento dell’uomo», dichiara. Simon Wiesenthal ha creduto morta per molti anni la moglie che aveva aiutato a scappare, crede di essere solo al mondo: «Se non posso vivere per una persona viva – dice – allora voglio vivere per i morti, perché devo giustificare in qualche modo il fatto di essere sopravvissuto». Uscito dal campo ritrova la moglie e compila la sua prima lista: 91 nomi di SS. Si stabilisce a Linz, in Austria, e comincia a istituire il suo ufficio archivio, dove lo schedario si infoltirà di giorno in giorno. Non è facile muoversi in un dopoguerra già diviso dalla nascente Guerra fredda: iniziano processi di insabbiamento e di cosiddetta “fraternizzazione”, ampiamente tollerati e incoraggiati anche dalla autorità alleate nella volontà istituzionale e collettiva di dimenticare un passato intollerabile.

Wiesenthal scopre un’organizzazione clandestina molto efficiente che si occupa di creare corridoi per la fuga dei criminali nazisti: si tratta di Odessa, che si serve di numerosi appoggi italiani e cattolici. Scoraggiato dalle difficoltà e dai tentativi di insabbiamento, Wiesenthal chiude l’ufficio, spedendo gli incartamenti in Israele. Tutti i fascicoli, tranne quello che gli interessa di più, il caso che letteralmente lo ossessiona, quello che riguarda la persona che più di ogni altra si è resa responsabile delle deportazioni di massa dopo la conferenza di Wannsee: Adolf Eichmann. È anche grazie alla serie di formidabili intuizioni dell’instancabile cacciatore di nazisti se Eichmann viene scovato una decina di anni dopo in un sobborgo di Buenos Aires, dove vive e lavora con il nome di Riccardo Klement, raggiunto da moglie e figli. Wiesenthal ha perseguito con tenacia la sua tesi, nonostante non sia stato creduto per anni: di Eichmann non si posseggono foto. Sguinzaglia alcuni collaboratori che rintracciano vecchie amanti del gerarca nazista per poter recuperare un ritratto fotografico, manda i suoi uomini a fotografare i fratelli di Eichmann al funerale del padre per carpire somiglianze, analizza informazioni, mette insieme i tasselli di un mosaico che porterà all’arresto del responsabile delle deportazioni naziste, poi processato e condannato a morte in Israele. Il processo Eichmann è un processo alla Shoah, il primo grande atto che restituisce la parola a un dolore immenso e fino ad allora silenzioso.

Wiesenthal recupera un vecchio elenco telefonico della Gestapo e rintraccia l’ufficiale austriaco che aveva arrestato Anna Frank, mettendo a tacere chi sosteneva che il suo diario fosse un falso clamoroso. Un uomo, però, non gli riuscì di prendere: Joseph Mengele, la cui morte in Brasile è avvolta da una coltre di dubbi e di misteri.

«La vendetta» diceva «è un sentimento poco duraturo: se io fossi stato mosso dal desiderio di vendetta non sarei andato avanti decine di anni». È il desiderio profondo di rendere giustizia alle milioni di vittime e ai superstiti della più grande tragedia del Novecento ad animare il lungo lavoro di Simon Wiesenthal: un lavoro di giustizia e di memoria («non c’è prosperità senza giustizia» soleva ripetere) per il quale la Storia sarà generosa con lui.

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